Recensione DARK – L’eterno déjà-vu del tempo
Un giorno un maestro di nome Zhuang sognò di essere una farfalla: quando bruscamente si risvegliò, rendendosi conto di essere di nuovo in sé, si chiese se fosse un uomo che aveva appena sognato di essere farfalla o una farfalla che stava sognando di essere uomo.
Il paradosso raccontato in uno dei dialoghi di “Dark”, la nuova serie tedesca ideata da Baran bo Odar e Jantje Friese ed accolta tra i titoli della piattaforma di Netflix, riassume perfettamente il cuore della sua trama intricata in cui la differenza tra realtà e ricordo, presente e passato, ieri e oggi, si fa sottile e gracile proprio come l’ala di una farfalla.
È il 1986 quando il piccolo Mads Nielsen sparisce misteriosamente frantumando l’atmosfera di fittizia serenità di Winden, cittadina tedesca posta sullo sfondo di una sperimentale centrale nucleare. Nessuno ha idea di dove sia: né il fratello maggiore Ulrich, né le coetanee Regina, Hannah, Charlotte, Katharina.
Nonostante le ricerche della polizia locale, il caso rimane un enigma senza soluzione e il dolore dell’assenza del giovane resta confinato tra le mura domestiche della famiglia Nielsen per 33 anni, consumando la madre ed isolando il padre. Col passare del tempo mutano anche le relazioni tra i ragazzi che, ormai adulti, accantonano le ombre del passato, costruendosi una casa e una famiglia solida (la prima concretamente e la seconda solo apparentemente).
Il destino però sembra avere ancora un conto in sospeso con i Nielsen! Durante una scorribanda notturna la storia si ripete e il terzogenito di Ulrich, Mikkel, sparisce misteriosamente riaprendo una ferita mai rimarginata. Questa volta ad essere testimoni del drammatico evento sono i figli dei cinque ragazzi coinvolti 33 anni prima: Jonas (figlio di Hannah), Bartosz (figlio di Regina), Franziska (figlia di Charlotte) e i fratelli Magnus e Martha (figli di Ulrich e Katharina).
È con questo primo immediato parallelismo che il tema del tempo conquista il ruolo di epicentro all’interno della serie. I continui salti di cinepresa dal 1986 e il 2019 mostrano come il passaggio dei decenni non sia bastato a sotterrare le questioni personali, le gelosie e i tradimenti dei protagonisti ormai adulti, ma che anzi le abbia accentuate tanto da proiettarle sulle generazioni successive. Lo scorrere del tempo si rivela irrilevante: la relazione adultera di Ulrich e Hannah diventa la fotografia sbiadita di quella tra Jonas e Martha, la violenza fisica e psicologica di Katharina su Regina si mantiene sempreverde e nella quotidianità di ciascuno aleggia nuovamente il fantasma di un bambino inghiottito dal buio della foresta.
E mentre a livello psicologico lo scorrere delle lancette dell’orologio sembra congelato da tempo, nella narrazione ciò si verifica realmente. Si inserisce così il tema dei viaggi nel tempo, la possibilità che l’inesistenza di un distacco tra presente e passato non sia solo percepita ma possa essere tangibile ed evidente. Ad innescare il tutto è il ritrovamento del cadavere di un bambino gravemente sfigurato, con i timpani perforati ed un anacronistico abbigliamento anni ’80: non si tratta di Mikkel.
Da questo momento in poi la distinzione tra passato, presente e futuro si dimostra unicamente “un’illusione ostinatamente persistente” e i colori opachi e cinerei della scenografia – insieme ai costanti temporali che offuscano lo sfondo – contribuiscono a creare il pallore malato di Winden, che agli occhi dei suoi abitanti appare come una “piaga infetta”. L’unico colore ad emergere dallo scenario grigio è il giallo di alcuni elementi ricorrenti come l’impermeabile di Jonas, l’ingresso della scuola e le pedine usate da Mikkel durante i suoi giochi di prestigio. Sempre sullo sfondo di una luce gialla si snoda la scena teatrale in cui Martha, la figlia di un Ulrich ormai al limite della pazzia a causa della perdita del figlio più piccolo, recita la vicenda mitologica di Arianna monologando del filo rosso che ella donò al suo amato per sfuggire al labirinto del Minotauro. Quello stesso filo rosso comparirà in due episodi salienti di “Dark”, guidando prima Jonas e successivamente Ulrich rispettivamente nel 1986 e nel 1953. Una volta frantumato l’argine tra presente e passato la sconcertante verità sulla scomparsa di Mads e Mikkel si riverserà sui protagonisti come un fiume in piena. Ciò che un tempo apparteneva al “prima” ora condiziona inevitabilmente il “dopo”, in una cascata di avvenimenti a domino che cambierà per sempre la vita delle quattro famiglie protagoniste di “Dark”. Finalmente i volti brutalmente deturpati delle giovanissime vittime acquistano un’identità e per la prima volta si inserisce l’ombra di un nemico comune, Noah, che – proprio come il personaggio biblico da cui prende in prestito il nome – nutre il desiderio di salvare l’umanità depurandola dal peccato che l’attanaglia.
I personaggi, da sicuri burattinai del proprio fato, diventano così semplici marionette – simili alle pedine gialle che Mikkel faceva sparire e ricomparire nei suoi tentativi da prestigiatore – i cui fili possono facilmente essere spezzati o riannodati in base alle scelte passate o future dei propri alter ego.
Nonostante la presenza di numerose analogie con la pluriacclamata “Stranger Things” (le luci che si spengono ad intermittenza, l’esistenza di una duplice dimensione della realtà, la vicenda che si apre con la misteriosa scomparsa di un bambino), “Dark” rivela fin da subito una maturità diversa e un’evoluzione nella trama molto più macabra ed oscura rispetto alla serie dei fratelli Duffer. A partire dai crudi ritrovamenti dei cadaveri di bambini mutilati in viso, fino alle spettrali scene di morte di massa degli animali, proseguendo poi con la studiata ridondanza sotterranea del numero 33, ovvero il “gomitolo” dal quale si diramano tutti i fili rossi della storia. Insieme ad essi, anche i numerosi rimandi ad Einstein e alla fisica dei buchi neri e i cenni all’evoluzione umana, dal Big Bang al diametralmente opposto Big Crunch. Per ultima, la visione dell’eterno ritorno dell’uguale proposto da Nietzsche, la cui idea di circolarità è alla base di tutta la serie: se l’andamento enigmatico ed inizialmente pigro dei primissimi episodi fa pensare quindi ad un malriuscito tentativo di ricreare l’ennesima serie tv sui viaggi nel tempo, lo sviluppo della trama nella sua peculiarità riesce invece a creare una fitta rete di collegamenti in grado di tenere i telespettatori incollati allo schermo fino allo scioglimento dell’ultimissimo nodo.
Tanti sono i dettagli lasciati in sospeso, come il motivo delle misteriose monetine portate al collo dai giovanissimi viaggiatori nel tempo, l’obiettivo degli esperimenti di Noah o i segreti nascosti della centrale nucleare. Il finale si rivela esplicitamente aperto ed annunciatore di una probabile seconda stagione in cantiere in grado di far luce su ogni dubbio.
Visti i presupposti, “Dark” sembra così avere tutte le carte in regola per un sequel capace di eguagliare la tensione, l’atmosfera e l’avviluppata storyline dei primi 10 episodi. Come ci hanno insegnato i protagonisti, quindi, la domanda giusta ancora una volta non è “come” questa serie in futuro ci stupirà, ma “quando”.
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