Eileen, la recensione del film tratto dal romanzo di Ottessa Moshfegh
Tratto dal romanzo omonimo di Ottessa Moshfegh, il 30 maggio arriva al cinema Eileen il nuovo film diretto da William Oldroyd (Lady Macbeth). La vita di Eileen (Thomasin McKenzie) e triste e semplice in un paesino del Massachuttes, vicino a Boston. Siamo negli anni ’60, nel gelo delle feste natalizie, dove la ragazza lavora al carcere minorile come segretaria. Un luogo aggressivo e “brutto”, dove però Eileen sembra non notare questa bruttezza che la circonda. Vive con suo padre Jim (Shea Whigman), un alcolizzato, ex-poliziotto e reduce di guerra. Lei si prende cura di lui, soprattutto quando c’è da cambiare la bottiglia vuota. Una vita sottomessa da spettatrice, dove la fantasia prende spesso il sopravvento verso gli istinti più negati dalla sua realtà.
La vita di Eileen cambia radicalmente quando incontra Rebecca St. John (Anne Hathaway). Una psicologa che entra a lavorare nel centro di detenzione giovanile. La ragazza è ammaliata da tanta bellezza, dal colore che emana, soprattutto dai suoi capelli in stile Marilyn Monroe o meglio Janet Leigh con annesso omaggio a Psyco. Rebecca è apparentemente forte e non si fa mettere i piedi in testa da nessun maschio. Rappresenta tutta l’evasione e la libertà di esprimersi che Eileen reprime da tutta la vita. In un posto dove la bellezza sembra non avere posto, Rebecca cambia le cose e diventa la prima vera amica della protagonista.
Il romanzo di Ottessa Moshfegh si ambienta nel dicembre del 1964 e racconta la storia di Eileen in prima persona. Il film, intelligentemente, non inserisce una voce fuoricampo a riempire i vuoti della narrazione. Il mistero rimane dietro la vita del personaggio di McKenzie. Una vita passata sullo sfondo quella di Eileen, e quando il padre le dice di “farsi una vita”, non ha idea di quello che farà da lì a poco sua figlia. Si può parlare di emancipazione femminile e lotta al patriarcato, ma ancora di più, Eileen parla di solitudine e dissociazione dalla realtà. Quando le cose cambiano improvvisamente per la protagonista, la sua reazione è quasi improvvisata e disordinata.
Eileen non è tanto antisociale, ma vuota, un vuoto in attesa di essere compreso, con violenza e tenerezza che sia. Quando il passaggio arriva, il cambiamento si fa concreto, la stessa ragazza diventa inquietante e sociopatica. La resa scenica è da lodare grazie all’interpretazione di Thomasin McKenzie. L’attrice di Jojo Rabbit ha la facoltà di rappresentare la purezza e in un lampo dare vita a inquietudine nel suo volto. Il suo sguardo cambia, cambiano i suoi colori, grazie anche ad una fotografia giostrata ad hoc per esaltare le sue pose. Il tutto è accompagnato da una musica graffiante che quando si azzittisce, l’ansia e il fattore thriller aumentano vertiginosamente. É proprio lì che l’emotività diventa viscerale e l’immobilita della camera è un pugno allo stomaco.
Eileen ha perso la madre suicida. Vive con il padre e dorme in soffitta, circondata da carte di caramelle. La sua vita è così vuota che è facilmente plasmabile da chiunque. Potrebbe, inverosimilmente, partire per la California e unirsi alla famiglia Manson (gli anni sono quelli). A differenza del personaggio di McKenzie che non sa cosa c’è dentro di lei pronta a esplodere, Rebecca si appoggia ad una caricatura artificiosa, costruita. Il personaggio di Hathaway gioca con Eileen e non capiamo mai quali siano le sue vere intenzioni. Forse perché in realtà anche lei è vuota dentro. Un’amicizia pericolosa che rivela lati oscuri dell’essere umano.
Senza inoltrarci troppo nella trama, soprattutto nella parte finale, il film Eileen ha la capacità di cambiare registro improvvisamente, mantenendo il pubblico incollato allo schermo. Dai dialoghi, alle ambientazioni, alle trasformazioni dei suoi personaggi. Su tutto, la creazione di quella che è la nuova vita di Eileen.
William Oldroyd realizza un omaggio al cinema noir, rétro già a partire dalle scelte grafiche. L’utilizzo del logo Universal Pictures in apertura di film – ovviamente degli anni ’60 -, oltre al font nei titoli di testo e di coda. Il risultato è qualcosa che ricorda il cinema di David Lynch, in particolare la sigla di Twin Peaks. I riferimenti e gli omaggi – come già anticipato – toccano anche il cinema di Hitchcock. Dai capelli di Rebecca, alla fotografia, alle inquadrature e il risvolto horror-thriller del film. Oltre alla macchina di Eileen che ha qualcosa che ricorda ancora una volta il personaggio di Janet Leigh in Psyco, ma forse sono proprio gli anni ’60 che hanno caratterizzato quel cinema ad essere costantemente menzionati.
La storia di Eileen parla di relazione dai confini pericolosamente sfumati. Eileen è giovane e il suo attaccamento alla vita è labile dato i traumi e le difficoltà che ha subito da tutta la vita. È bastata una spina per farla volare via.“Per aspera ad astra”.
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