La città proibita, recensione del film di Gabriele Mainetti
Amore, melodramma, vendetta tarantiniana e kung fu nella Roma multietnica. E’ così che si potrebbe descrivere il nuovo film di Gabriele Mainetti, La città proibita, in uscita in più di 400 sale a partire dal 13 marzo. Reduce dal successo di Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, questa volta Mainetti decide di spingersi oltre il limite per portare in scena una storia che sfidi il mainstream dell’attuale cinema italiano. Lo sfondo è sempre la Roma di Mainetti. La città in cui è nato e cresciuto.
Ed è proprio per questo che in ogni suo film offre una chiave di lettura diversa della città in base ai quartieri che tratta. Dalla Roma di periferia di Jeeg Robot. Alla Roma martoriata, ma ancora combattente della seconda guerra mondiale di Freaks Out. Fino alla Roma di La città proibita, la Roma dell’Esquilino. Un vero e proprio crocevia di tradizioni e culture diverse, tutte riunite sotto lo stesso cielo romano. Ma indaghiamo circa le intenzioni, velate e non, dietro questa particolare rappresentazione di Roma;
La scorsa settimana abbiamo incontrato il regista e l’intero cast alla conferenza stampa di Roma per saperne di più sulla realizzazione e sull’idea alla base di La città proibita. Il film viene fin da subito definito una lettera d’amore nei confronti di Roma, con la precisa intenzione di mostrare quanto la città può dare sia ai suoi popolani che agli stranieri che trovano rifugio o conforto in essa. Secondo Mainetti, c’è un pregiudizio insensatamente radicato riguardate Roma e il cinema romano, ed è per questo che stavolta ha voluto dipingerla in modo diverso da come tutti la immaginano, né bistrattata né osannata in maniera esagerata come avviene spesso, ma mostrata nella sua interezza senza veli per far capire che i romani sono anche altro.
Ma oltre l’enorme incontro di culture che avviene nella capitale, viene mostrata anche la Roma di Vacanze Romane, quella città affascinante, eterna e dalla bellezza quasi tragica che molto spesso usiamo per sedurre gli altri. Ci sarà una scena in particolare per le strade della città di notte in scooter in cui tutto si fa silenzioso, poetico, quasi utopistico, com se Mainetti ci sussurrasse all’orecchio: “la vedete? Roma può essere anche questo, una pausa dalla frenesia”. E’ così che nel corso del film si esploreranno i vari mondi di Roma, utilizzando come centro nevralgico il quartiere dell’Esquilinio, ovvero il luogo della storia in cui è ambientato il fittizio ristorante cinese chiamato proprio “la città proibita” e da cui si accenderà la miccia che farà esplodere l’azione. Parliamo ora della trama.

Cina, 1979. L’obbligo del figlio unico è una legge a cui nessun cittadino cinese può sfuggire, la pena è punibile con una denuncia. La protagonista della storia sarà proprio una secondogenita, Mei, costretta per tutta l’infanzia a nascondersi e successivamente a dividersi da sua sorella Yun. Un salto temporale di 15 anni mostrerà Mei nella Roma dell’Esquilinio alla ricerca di sua sorella maggiore, ma una serie di imprevisti e coincidenze porteranno sul suo cammino un giovane cuoco di un ristorante romano, Marcello, che ben presto scoprirà che la scomparsa di suo padre è legata proprio a quella della sorella di Mei. I due danno inizio ad una storia vivida, caotica, profondamente umana e struggente e che fonde azione, umorismo e problemi sociali di gran rilievo.
La rappresentazione che dà Enrico Borello del suo personaggio, Marcello, è il vero punto di forza del film in quanto principale canale attraverso cui si riversa questo folle turbinio di emozioni e di conflitti personali. E’ davvero sorprendente il carisma e la versatilità che utilizza per affrontare un ruolo che ha bisogno sia di un fascino crudo e apparentemente imperturbabile che di un cuore profondamente pesante e tormentato. Tanto che alla fine del film si trasforma in un personaggio nettamente diverso a come lo avevamo conosciuto all’inizio, portando a compimento uno straordinario sviluppo del personaggio.
Ad accompagnarlo in questa eccellente resa c’è ovviamente Yaxi Liu, che non porta sullo schermo solo l’abilità fisica ma anche una potentissima presenza emotiva; una stunt-man al primo ruolo d’attrice, Yaxi è anche una terza figlia nata al tempo della legge sul figlio unico e perciò la storia di La città proibita è qualcosa che ha sentito vicina alle sue origini. Gabriele Mainetti disse di averla trovata su Instagram grazie al suo precedente ruolo da stunt-man nel film della Disney, Mulan e di non averci pensato neanche un secondo prima di offrirle il ruolo. Portare il kung fu a Roma non è qualcosa che si vede tutti i giorni, ma Mainetti ha gestito le scene d’azione, i combattimenti e gli inseguimenti in maniera così lineare, accurata e senza paura da non far mai distogliere l’attenzione dello spettatore.
La stessa Yaxi disse che le scene di combattimento sono state molto più difficili di quelle a cui è sempre stata abitata perché il regista non voleva un montaggio troppo serrato ma bensì sequenze lunghe che prevedevano di ricordarsi tutta la coreografia a memoria. E infatti i combattimenti presenti nel film non sono solo una serie di scazzottate senza senso di cui lo spettatore non riesce a seguirne nemmeno i movimenti, ma bensì un racconto serrato e dinamico.

Uno stile molto Tarantiniano, non a caso Mainetti è fan di Quentin Tarantino e afferma di essersi ispirato proprio a Pulp Fiction durante la scrittura dei suoi personaggi. E sarà proprio la scrittura di quei personaggi e delle loro storie così diverse e personale che nel film saranno fondamentali per tendere una mano al pubblico e portarlo nel cuore della storia. Manca però il citazionismo tipico di Tarantino, e va bene così. Nel film c’è giusto un eco lontano di Vacanze Romane e qualche riferimento a Bruce Lee e a film come La mano sinistra della violenza, nient’altro.
In questo caso la formula vincente sta in uno specifico tema centrale che rappresenta la forza vitale della storia stessa. Addirittura in grado di unire due paesi che si trovano a migliaia di chilometri di distanza. Il sentimento che ti salva. La vendetta, la violenza marziale, la rabbia cieca, il melodramma familiare, il risentimento, il tradimento, crolleranno tutti sotto il peso del sentimento, quello apparentemente impossibile per cui bisogna lottare con i denti e con le unghie. E in questo Mainetti omaggia anche il cinema orientale, in cui questa mescolanza di generi è sempre presente e ricorrente.
Insomma, La città proibita è il vero fulmine a ciel sereno in un panorama cinematografico in cui si fa solo ciò che è più facile. Ciò che più è conveniente. Splendidi omaggi a Roma, al cinema orientale, agli anni 70 e con la sua inarrestabile voglia di sfidare le convenzioni del cinema italiano. Gabriele Mainetti ha dato vita ad un film che, seppur abbia qualche lacuna di sceneggiatura e che attinga troppo da Kill Bill, riesce a distinguersi da tutto ciò che abbiamo visto finora. Con un’emozionantissima epopea in cui combattimenti e sentimenti fanno l’amore.
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