La zona d’interesse, il film idea di Jonathan Glazer sull’Olocausto
Uno dei film più importanti dell’anno, La zona d’interesse arriva in sala il 22 febbraio. La grande opera di Jonathan Glazer, vincitrice del Grand Prix al Festival di Cannes 2023, è stata definita dal regista Alfonso Cuarón “Il film più importante del secolo”.
Come si può realizzare un film su un tema come la shoah, più e più volte trattato? Questa è una delle domande più difficili in cui si è imbattuto il regista di Under the skin. Il tema qui è andare a indagare le somiglianze che abbiamo con i colpevoli e il disagio che questa riflessione comporta. Non si tratta di un film che risulta un pezzo da museo a cui guardare con distanza, perché è una cosa che è successa ottant’anni fa e questa distanza ci fa sentire a nostro agio. L’impulso che ne deriva è quello di ricordare a noi stessi che siamo in grado di commettere ancora gli stessi orrori “e seguire, passo dopo passo, quella stessa abominevole strada”.
Un uomo e sua moglie tentano di costruire una vita perfetta in un luogo apparentemente da sogno: giornate fatte di gite in barca, il lavoro d’ufficio di lui, i tè con le amiche di lei e le scampagnate in bici con i figli. Ma l’uomo in questione è Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, e la curata villetta con giardino della famiglia si trova esattamente di fianco al muro del campo. Glazer parla di morte attraverso la sottrazione. Il suo cinema diventa un’idea, un concetto che va elaborato. Perché La zona d’interesse ci mette qualche giorno a macinare nei nostri pensieri. Introdurre il film con lo schermo nero e le musiche graffianti in stile Kubrick mette subito le cose in chiaro. Spettatore, ti sto mettendo a disagio, sappilo. E non solo il nero, ma anche il rosso, sangue nazista, che a metà pellicola domina lo schermo.
La vita del comandante Höss e sua moglie Hedwig prosegue serena, felice. Fanno picnic al fiume con i figli. Hanno amici e parenti in visita, festeggiano il compleanno di Rudolf con una festa in piscina. Tutto procede in questa casa con giardino. Una lunga tenuta separata da un muro che trasuda morte. Grigio, alto che termina con il filo spinato. Al di là di quel muro il regista non ci porta mai. Per questo si parla di sottrazione. Noi sentiamo urla, spesso di bambini, spari, vediamo la ciminiera dei forni continuamente attiva emettere fumo nero. Sappiamo tutto, ma non vediamo mai cosa succede dentro al Campo di concentramento.
Questa è la scelta di Glazer: farci percepire uno degli orrori più terrificanti della storia dell’uomo senza mostrarcelo. Perché alla fine, nessuno di noi ha visto veramente il dolore oltre quel muro. La zona d’interesse è una continua evoluzione. In questo caso non siamo nel mondo reale, ma su un set cinematografico. Reale sotto tutti gli aspetti: una vera casa, con un vero giardino, un vero muro, tutto quello che si vede nel film. “Dato che io avevo bisogno di credere che fosse reale, avevo bisogno di presentare tutti questi elementi come reali prima di tutto a me stesso”. Le parole di Jonathan Glazer alla Festa del Cinema di Roma.
La banalità del male
Guardando a questo film non si può non pensare all’espressione di Hannah Arendt sulla banalità del male. Negli anni, molti registi si sono approcciati a questo concetto, ma il modo in cui lo manifesta Glazer è impressionante sopra ogni cosa. Il regista sperimenta ed è molto audace. Come già anticipato rende lo schermo monocromatico con le composizioni di Mica Levi che urlano. Gira scene notturne in una spettrale visione in bianco e nero, e infine, in una sequenza straordinaria, fa un salto in avanti nel futuro (oggi) per mostrare un tipo di quotidianità che ti spezza in due. Un semplice gesto del vissuto che in quel contesto è totalmente alienante.
Jonathan Glazer non ha mezze misure e ci mostra subito il suo punto di vista. Forse la storia in sé non è così avvincente, ma è proprio il fatto di narrare di persone apparentemente sane di mente che fa spavento. La storia ci dice che i nazisti erano tutti pazzi. Ma in questo caso non sembra proprio. La quotidianità della vita di questi assassini di massa è più che consapevole. Il modo in cui Hedwig e le donne di casa discutono sui vestiti trovati sui cadaveri, o la presentazione di progetti dei forni. Due scene che non menzionano mai le parole “campo”, “ebrei”,”cadaveri”. Sottrazione di parole che non servono per farci capire la pazzia e la crudeltà di quello che stiamo vedendo.
La ripugnante indifferenza dei personaggi rappresentati è la vera novità de La zona d’interesse.
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