Con Dostoevskij, Sky non è mai stata così vicina a Hbo
C’è stato un tempo – non troppo lontano, a dire la verità – in cui la produzione televisiva in Italia era limitata ai melò e a storie di poliziotti, preti o santi. Il pubblico si accontentava, chi voleva togliersi qualche sfizio in più guardava all’America grazie alle pay-tv (o a qualche altra diavoleria più o meno legale), rassegnato all’idea che quel livello di scrittura, di regia e di recitazione sarebbe difficilmente riuscito ad attecchire in Italia.
Poi Sky ha deciso di gettare il cuore oltre l’ostacolo, realizzando serie dal taglio cinematografico e che non rinunciavano all’autorialità. Tutto è iniziato con Romanzo Criminale, anche se il vero spartiacque per la serialità italiana è stato Gomorra, i cui epigoni – ciao Mare Fuori – continuano a spopolare a dieci anni dall’esordio della saga di Ciro e Genny. Nell’ultimo decennio Sky ha continuato a sperimentare coi generi – il paranormale di Christian, l’heist per Blocco 181, il peplum con Domina -, con i linguaggi – citofonare Romulus e il suo protolatino – e spaziando sui temi, arrivando persino a rendere sexy la finanza dei Diavoli.
Il gioiello della corona seriale di Sky, quantomeno fino alla fine del 2025, è l’accordo in esclusiva con Hbo. Distribuire in esclusiva per l’Italia i titoli più attesi e apprezzati che escono dalla fucina di Warner Bros. Discovery come Game of Thrones, Euphoria e True Detective ha dato alla pay-tv un vantaggio qualitativo che le altre piattaforme ancora non riescono a colmare. Nessuna serie italiana era mai riuscita ad avvicinarsi al canone Hbo. E poi è arrivata Dostoevskij.
Poteva essere molto facile, per Fabio e Damiano D’Innocenzo, bucare la loro prima serie. Perché fare tv non è esattamente come fare cinema, perché sono amatissimi – e anche criticatissimi -, perché non si sottraggono dal portare sullo schermo storie e personaggi divisivi. Nonostante queste premesse, Sky ha, ancora una volta, scommesso su un cavallo che non era necessariamente quello vincente. Sulla carta, forse, ma sono tanti i progetti che – tra il loro annuncio e il loro debutto – perdono quell’incisività che ci si aspettava.
Dostoevskij non è una serie facile. Chi scrive fatica anche a considerarla una serie, anche perché è stata mostrata come un film di sei ore suddiviso in due parti che arriverà nelle sale verso l’estate. Si tratta di un lungo flusso di coscienza in cui l’elemento seriale sbuca di tanto in tanto, senza davvero riuscire a imporre il proprio formato. All’inizio Dostoevskij si presenta come una sorta di True Detective all’italiana. C’è un poliziotto con problemi di alcol e stupefacenti – Enzo Vitello, il protagonista interpretato da Filippo Timi -, un serial killer – soprannominato “Dostoevskij” – che lascia criptici messaggi a fianco alle sue vittime, e c’è una provincia laziale gretta e desolata che potrebbe benissimo essere l’Alabama.
Superata la prima parte, tuttavia, Dostoevskij cambia pelle. I contorni dei personaggi si deformano – straordinarie le interpretazioni di Gabriel Montesi e Carlotta Gamba – per sviscerare una natura umana che spiazza lo spettatore. Senza incorrere nel rischio di spoiler, nella serie è presente un colpo di scena come se ne sono visti raramente al cinema e in televisione. Tutti amano parteggiare per l’antieroe, più difficile sarà continuare a fare il tifo per Enzo Vitello. Lo sguardo dei fratelli D’Innocenzo indugia senza giudicare sui volti dei protagonisti, quasi a voler catturare la loro anima dannata. Ritroviamo molti temi della loro filmografia – il paese dannato, i tabù infranti, la famiglia come coacervo di pulsioni represse – e anche i loro colpi di genio, come la scena in cui un personaggio si sottopone a una colonscopia.
Alla fine di questo viaggio disorientante che è Dostoevskij, l’identità del killer – che è comunque non banale – diventa l’elemento che meno interessa a chi guarda. Sky si è presa un bel rischio con questa serie, ma Dostoevskij è una scommessa vincente. Prima di tutto perché posiziona la pay-tv di Comcast come la destinazione ideale per i progetti originali in Italia, diventando ancor più attrattiva per i registi e gli autori sempre più pressati da procedural e intellectual property di forte richiamo. Ma anche perché, con i fratellI D’Innocenzo, Sky ha confezionato una storia in grado di suscitare – nel bene o nel male – emozioni forti in chi la guarda.
Dostoevskij è la migliore produzione originale di Sky dai tempi de Il Miracolo, ed è senz’altro ciò che più si avvicina a una serie Hbo italiana. Se l’obiettivo di questa operazione era alzare l’asticella – non solo internamente ma anche a livello di settore -, Nils Hartmann e la sua squadra hanno molto di cui andare fieri.
Si dice che l’arte abbia il dovere, specialmente in questi tempi disgraziati, di mettere a disagio e di risultare scomoda. Dostoevskij fa esattamente questo. Probabilmente non raggiungerà lo stesso vastissimo pubblico di Gomorra, ma poco importa. Il cinema non è solo un mondo di botteghino, ascolti o stream: ci sono storie che vanno coltivate e nutrite, pubblici da educare e confini da mettere in discussione. Chapeau.
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