Di Flavia Orsini
Strange Darling, la recensione del thriller di San Valentino
Quando uscì il trailer del film Strange Darling lo scorso giugno, il film venne presentato come “l’horror dell’anno”. Iniziò una grande commercializzazione del prodotto, dovuta soprattutto all’insolita scelta di dirigere il film in 35 mm e all’esordio alla fotografia dell’attore Giovanni Ribisi (il fratellastro di Phoebe, Frank Buffay Jr in Friends).
Il film, però, non ebbe un esordio splendente durante la pre-produzione. Dopo solo due giorni di riprese, i dirigenti della casa di produzione interruppero improvvisamente il film in quanto non gradirono affatto il materiale del girato, affermando che non avrebbe minimamente funzionato. Intere sequenze vennero dunque tagliate, si pensò addirittura di re-castare la protagonista Willa Fitzgerald (Reacher) e di assumere un nuovo editor, alle spalle del regista, per girare nuovamente il film in ordine lineare.
Insomma, una produzione travagliata che però ebbene un responso più che positivo da parte del pubblico durante lo screening test. In questi casi non è facile entrare in sala a mente libera, soprattutto perché l’estrema glorificazione di un film durante la sua pubblicizzazione si rivela il 99% delle volte una grande delusione. D’altronde non importa come, importa che se ne parli. E il film Strange Darling ne è l’esempio.
Uno slasher-thriller psicologico
Il film si presenta come uno slasher-thriller psicologico diviso brillantemente in sei capitoli (rievocando lo stile Tarantiniano) riguardanti la storia di un serial killer. La premessa fa chiaramente intendere che si tratta di una storia vera (un lungo incipit che introduce la figura di un rinomato serial killer che ha operato dal 2018 al 2022), ma questo sarà solo uno dei tanti stratagemmi per condizionare la mente dello spettatore con false convinzioni.
Anche la divisione in sei capitoli ha lo stesso obiettivo, in quanto non verrà seguita la linearità dei fatti ma bensì i capitoli procederanno in modo totalmente sconclusionato, impedendo al pubblico di avere fin da subito un quadro chiaro e limpido della situazione. Man mano che procede la narrazione, alcuni pezzi del puzzle si uniscono per dare vita ad una svolta fondamentale. Il serial killer non è colui che crediamo, ma bensì colei che pensavamo fosse la sua vittima. Un’idea geniale e un punto di volta davvero originale, se solo le premesse non fossero state così prevedibili.
Fin dai primi momenti tra la ragazza e il suo apparente carnefice, in quella stanza di motel dove lei chiede esplicitamente un certo tipo di sesso, emerge dal suo personaggio un lato oscuro troppo marcato per passare in secondo piano; sadismo, fluidità sessuale, droga e una serie di parafilie come il BDSM che improvvisamente allontanano la giovane vittima da quel tipico clichè femminile della donna ingenua e indifesa che viene inconsciamente attirata nella trappola del suo aggressore.
C’è anche un forte senso di femminismo che permane nell’aria durante questa prima fase fisica-conoscitiva tra i due protagonisti. C’è un rimarcamento continuo del concetto del consenso, della libertà sessuale femminile. Di conseguenza la figura maschile subisce un repentino calo di potere. Colui che inizialmente è stato chiamato The Demon, Kyle Gallner (Smile), passa dall’essere un apparente serial killer ad una povera vittima. Una concept idea estremamente interessante. Se si pensa al focus sulla figura della serial killer donna.
Anonime pedine per creare confusione
Il genere thriller ha sempre avuto una maggioranza di serial killer maschili, e se non fosse stato per Attrazione Fatale, Basic Instict e Monster non avremmo mai avuto una valida rappresentazione della furia femminile nel campo criminale. Purtroppo però, anche qui c’è molto da recriminare. Il personaggio di The Lady, Willa Fitzgerald, non ha alcuno spessore psicologico né tantomeno una valida caratterizzazione del personaggio. Non conosciamo le sue motivazioni, non conosciamo la sua storia. Non conosciamo il suo modus operandi ma possiamo solo ipotizzarlo in base a come si è comportata con la sua ultima vittima. Dunque cosa rimane di questo personaggio una volta che il film giunge al termine? Fondamentalmente nulla. Una superficiale furia omicida. E così accade anche per il personaggio di The Demon e il resto del cast. Tutte anonime pedine poste sul tabellone per creare confusione.
D’altronde, anche la struttura della storia, che presenta i suoi capitoli in modo sfalsato e casuale, sembra a tutti gli effetti un disperato espediente per mascherare una trama vuota e stereotipata. Il tutto viene ulteriormente aiutato dalla presenza di contenuti espliciti gratuiti e morti sanguinolente che contribuiscono al generale senso di shock e deviano la mente dello spettatore dalla pochezza della sua sceneggiatura.
Il problema della sospensione dell’incredulità
Il risultato? Un più che valido esercizio di stile che però tenta in tutti i modi di rendere interessante la pura superficialità. Non c’è alcuna profondità di temi. Nessun lavoro di intuizioni da fare. Nessun coinvolgimento se non a partire da metà film in poi, ma solo un alto livello di sospensione dell’incredulità. Addirittura anche le scene autolesioniste presentano una grave superficialità di rappresentazione, mostrando inesattezze come il dolore dopo la ketamina, la cocaina come antidoto e l’inflizione di tagli troppi lievi per provocarne una soddisfazione sessuale.
Totale disinteresse per il realismo o mero tentativo di alleggerire la pesantezza di certi temi. A prescindere dalle sue motivazioni, questo è l’ennesimo esempio di una sceneggiatura approssimativa e insensibile. Ma ciò che più mi disarma è il non avere niente da dire o da comunicare. Quante storie sui serial killer abbiamo visto che non si sono limitate a mostrare soltanto la violenza degli atti perpetrati da questi soggetti deviati. Che hanno indagato circa le ragioni di queste cause scatenanti? Quante storie hanno elaborato delle vere e proprie analisi psicologiche su queste personalità. Dandogli talvolta una scusante o cercando di empatizzare con il loro lato più fragile? Se7en, Zodiac, Ted Bundy – Fascino criminale. Addirittura Companion, la più recente uscita nel genere horror, è riuscito a trasmettere profondi temi umani come il possesso e la tossicità amorosa.
Un posticino nell’oscurità del dimenticatoio
Il film Stranger Darling non è tra questi, e non perché ci abbia ci provato senza riuscirci, ma proprio perché non era assolutamente questo il target (oltre che l’intenzione) dietro la sua produzione. C’è chi preferisce il contenuto alla forma e chi invece si dimentica totalmente il contenuto per concentrarsi su un narcisistico esercizio di stile fatto solo di trucchi estetici. Un vero peccato considerando che gli attori di cui avevano a disposizione hanno dato prova di un gran talento di immedesimazione. Di note positive ce ne sono, certo. La splendida regia girata in 35 mm. La fotografia dal tocco vintage che si alterna con lo stile electro/punk. Un set location caratteristico e in pieno anni 70 che talvolta ricorda i campi di grano di Texas Chainsaw Massacre o le distese desertiche in autostrada in The Hitcher. Non è abbastanza per colmare un vuoto lasciato dalla sceneggiatura stessa.
I plot twist sono fondamentali, soprattutto nel genere thriller. Oggi troppi film possono vantare svolte memorabili, ma nessuno di loro vive esclusivamente di quello dimenticando il resto. L’epilogo del film Strange Darling non è da meno. Un anticlimax lento ed inesorabile verso il più prevedibile e insignificante dei finali e che riporta tutto noiosamente all’inizio del film, come un capitolo chiuso in assenza di contenuti. Superato l’entusiasmo del momento, prevedo un posto speciale per Strange Darling nell’oscurità del dimenticatoio dei film.
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