The Brutalist, il film epico in costume di Brady Corbet
In questa stagione dei premi 2024/2025 offuscata dalla tragica situazione di Los Angeles in fiamme, arriva in sala l’atteso film The Brutalist, dal prossimo 6 febbraio al cinema. Mentre in anteprima dal 23 gennaio per un evento speciale in occasione della SHOAH, in proiezione in pellicola 70 mm, in tre cinema selezionati: Quattro Fontane a Roma, Lumière a Bologna, Arcadia a Melzo (Milano).
Il regista fresco di Golden Globe Brady Corbet ha voluto utilizzare per giarare un formato 35mm per adattarsi al periodo storico in cui si ambienta il film. Presentato in anteprima all’81° Mostra del Cinema di Venezia dove ha vinto il Leone d’Argento alla migliore regia, The Brutalist si è portato a casa tre Golden Globes, oltre alla migliore regia, il premio per Miglior film drammatico e Miglior attore in un film drammatico per Adrien Brody (Houdini). L’ennesimo prodotto distribuito da A24 (in Italia da Universal Pictures) innegabilmente straordinario. Un film monumentale, epico in costume su una storia di ossessioni, sofferenze, dolori, ricerca di un nuovo posto nel mondo per un artista ebreo fuggito dall’Europa occupata dai nazisti. Una ricerca artistica stratificata che per comprenderla è stato necessario un processo di storicizzazione.
Stati Uniti, il paese della nuova vita
Diversamente dai classici film sull’Olocausto, qui ci troviamo nel primo dopo guerra. Il film inizia nel 1947 ed è diviso in due parti con un epilogo che si ambienta nel 1980. L’ebreo ungherese di Budapest László Tóth (Brody), è un architetto della scuola Bauhaus che è riuscito a fuggire dal campo di Buchenwald e arrivare negli Stati Uniti in nave. Con meticolosa partecipazione, la macchina da presa ci permette di assistere nel prologo alla claustrofobia del viaggio, alla visione della Statua della Libertà (a testa ribaltata). Segno di una nuova vita, nuova libertà. Oppure, false speranze per un Paese che non accetta del tutto lo straniero. (riferimento all’America trumpista?). Quando Tóth barcolla fuori dalla stiva della nave di immigrati per dare il suo primo sguardo all’iconica Signora che da il benvenuto ai nuovi arrivati, è stordito, intontito e la statua incombe in modo inquietante capovolta.
In seguito, scopriremo che è proprio sulla nave che László si è procurato della droga per ovviare il dolore ad una ferita al naso. Dipendenza che porterà avanti per tutta la sua vita. Sostanze stupefacenti, frenesia, alcol, pornografia, sesso, musica free jazz tutto questo è la prima parte di The Brutalist, ambientata tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60. Gli anni della Beat Generation, della generazione rivoluzionaria, contrariata contro le false speranze di un bel Paese fatto si apparenze estetiche e sogni infranti. Agendo come un maestro burattinaio sull’Europa e l’Asia.
The Brutalist è un connubio tra l’antisemitismo e l’avventura capitalista americana. All’inizio László viene accolto dal cugino Attila (Alessandro Nivola) e la moglie in Pennsylvania, a Philadelphia, dove inizia a lavorare per lui nella sua azienda di mobili. Nuova famiglia, nuovo nome, nuova religione e nuova lingua. Il cugino prosperoso offre inizialmente a Tóth un lavoro nel suo negozio, ma la moglie cattolica americana è destinata a scontrarsi con l’architetto. Il suo unico amico maschio è Gordon (Isaach de Bankolé), un vedovo, veterano militare e padre single che Tóth ha incontrato in fila alla mensa per i senzatetto.
Una gloriosa ampiezza
Una nuova vita quella di László che vede gli immigrati non assimilati al processo americano, unito all’ingenuità del Paese più potente al mondo. Il tutto contrapposto alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale e alle competenze europee culturali. Nel corso della sua vita, viene chiesto a László come era la Guerra in Europa da parte di questi signori ricchi americani. Non hanno la minima idea di che cosa sia davvero accaduto dall’altra parte del Mondo.
L’approccio a The Brutalist può essere diffidente data la durata di 3 ore e 40, ma in realtà tutto è immediatamente emozionante. La forza narrativa del film è così potente, che unita alla visione panoramica della pellicola, è impossibile tirare uno sbadiglio. The Brutalist offre una gloriosa ampiezza, chiarezza e persino semplicità, e tuttavia, unita a qualcosa di oscuramente misterioso e inquietante da intuire nella sua bella forma. La storia non è tratta propriamente da un romanzo, ma è frutto dell’originalità di Corbet in base alle sue ricerche. Costretto ad aspettare la moglie Erzsébet (Felicity Jones), bloccata con la nipote in Europa, grazie al lavoro con Attila, László entra in contatto con un magnate, mecenate, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), che gli commissiona un ambizioso progetto architettonico.
Ossessione e caos plasmati in architettura
Fin dall’inizio, c’è qualcosa di sinistro nell’incontro tra l’artista europeo con il plutocrate americano, ma probabilmente fin dal suo incontro con gli Stati Uniti stessi. Van Buren offre a Tóth una nuova vita e usa anche i suoi contatti politici per far entrare Erzsébet e la nipote Zsófia (Raffey Cassidy) negli States. Il progetto che gli affida riguarda un vasto centro comunitario nella città in memoria della sua defunta madre.
Il perfezionismo di Tóth, il suo carattere irascibile e i suoi problemi con alcol e droghe rendono il progetto un calvario. Gli abitanti di Doylestown, protestanti sono sospettosi di Tóth in quanto ebreo e per i costi che sforano fin dall’inizio. Questione della storia forse autobiografica per Corbet. Il regista ha impiegato sette anni ad ottenere i finanziamenti necessari per realizzare il film, prodotto da indipendente. Il budget è stato tra i 6 e i 10 milioni di dollari. “Siamo andati a risparmio ovunque possibile per essere certi che ogni singolo centesimo si vedesse sullo schermo. È stato uno sforzo erculeo, che non consiglio a nessuno, anni e anni di lavoro praticamente gratis”.
Il fallimento e il successo del capitalismo
Harrison è un self-made man che colleziona prime edizioni e madeira come se potesse ottenere un punteggio alto in quanto colto. Nell’interpretarlo, Pierce è minaccioso e divertente allo stesso tempo, specialmente quando l’uomo sostiene a László, più di una volta, che trova le loro conversazioni “intellettualmente stimolanti”. L’architettura brutalista è definita dal suo minimalismo, dall’esposizione di materie prime e dalla concessione di graffi e imperfezioni come parte del design “finito”. La pelle di László, il precedente infortunio al naso e altre cicatrici, raccontano una storia a sé, come se fosse arricchito tanto quanto le strutture che ha creato in Ungheria.
Tóth sogna il marmo e con Harrison finiscono a Carrara, in quella che sarà la scena più onirica, violenta, sospesa nello spazio e il tempo. Un luogo mistico dove il marmo da lì preso ha permesso la realizzazione delle opere più eterne mai realizzate. Questo luogo sacro e surreale, viene violato. Avviene qualcosa di velenoso, terribile, dove l’inquietudine di un personaggio come Harrison sfocia in un essere magnate capriccioso che vuole usare a suo piacimento chi gli pare e piace. L’impotenza di László ne subisce le conseguenze e l’architetto è vittima di qualcosa che lo segnerà a vita.
Per la maggior parte di The Brutalist il film è pieno di inquadrature grandangolari, paesaggi mozzafiato e tanto spazio aperto. Vediamo però László vivere in situazioni di squallore e in spazi minuscoli. Quanto è libero László, davvero? Il sogno americano è pura finzione, i commenti razzisti, antisemiti esistono eccome da parte dei ceti sociali elevati. Il film ci permette di entrare nel contesto storico e ricordarci che quel sogno è una farsa e che László – probabilmente – lo ha capito troppo tardi.
Personaggi ben scritti che non hanno mai promesso di essere buoni
Nella seconda parte del film troviamo finalmente Erzsébet (Felicity Jones). Una donna, giornalista con un spirito potente, dentro un esile corpo gravato dall’osteoporosi. Per Jones, The Brutalist è la prova che lei sia capace di grandi interpretazioni, quando le vengono date le giuste opportunità. A completare gli elementi che rendono The Brutalist un film straordinario è il copione. I dialoghi di Corbert e Mona Fastvoid sono a dir poco stellari. The Brutalist è ricco di battute stimolanti. Ogni personaggio ha la sua ragione di esistere e nessuno di loro nasce per essere considerato uno dei “buoni”. Infatti, quasi tutti in The Brutalist sono pieni di peccato, in un’America che promette fortuna in un mondo di opportunisti.
In un periodo in cui il futuro del cinema è sempre più traballante, The Brutalist ci implora di essere visto sul grande schermo in 70 mm. Un’opera massimalista quanto minimalista: una visione su larga scala per un prodotto gigante ma che contiene tanto su cui indagare. Il film ci mostra come violenza e ferocia, non sono la stessa cosa del “brutalismo”, che accompagnano il fallimento e il successo capitalista, con Van Buren Sr e forse junior colpevoli di stupro.
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